“Di me sarete testimoni”. Partiti dalle nostre Chiese locali ci siamo riuniti qui a Roma, la Chiesa di Pietro e Paolo, per inserirci nell’ininterrotta corrente spirituale che scaturì dal mandato di Gesù ai primi discepoli, in quegli straordinari eventi che lo videro protagonista, tra Pasqua e Pentecoste. Di lui intendiamo essere testimoni: per questo abbiamo accettato di coinvolgerci nel Cammino sinodale, spendere tempo ed energie per ascoltare, pregare, celebrare, discernere e orientarci. Per essere testimoni di Cristo risorto – e quindi fedeli all’umanità del nostro tempo – abbiamo accolto l’invito di Papa Francesco, che tre anni fa ha messo in Sinodo tutta la Chiesa. La forza dallo Spirito Santo è il vento che sospinge il nostro Cammino sinodale. La missione a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra (cf. At 1,8) è l’orizzonte del nostro convenire.
Quando avviammo il Cammino sinodale, incombevano ancora le ombre della pandemia, che aveva seminato paure e lutti, smarrimento e dolore. Avevamo vissuto, in una sorta di sospensione del tempo, l’allentamento dei legami vitali e persino la loro recisione; improvvisamente la vita quotidiana era stata sconvolta, l’apprensione per la nostra salute e quella dei nostri cari era diventata triste realtà, con tante morti prive di assistenza familiare e di accompagnamento al sepolcro. Si era fatto buio su tutta la terra, in un Venerdì Santo universale e, poco tempo dopo, in un Sabato Santo fatto di attese e speranze. Spuntavano infatti, qua e là, dei lampi di luce in quella tenebrosa esperienza: gesti di prossimità e creatività, veri e propri eroismi domestici e comunitari, segnali di interesse verso le proposte spirituali, le preghiere e le celebrazioni a distanza. E tanti propositi, tante intuizioni per il dopo pandemia.
Il Sinodo ha preso avvio in questo clima, quasi segnando un nuovo inizio e aprendo il cuore di molti alla speranza. Il nostro Cammino, per un anno intero, si è plasmato sulle questioni proposte dal Sinodo universale. A metà del percorso di quel primo anno, quando ormai la pandemia si diradava, la tragedia insensata della guerra è entrata in modo martellante nelle nostre case, facendoci ripiombare in un clima cupo, ma – anche in questo caso – ispirando gesti di accoglienza e solidarietà. Quando poi nell’ottobre dello scorso anno, in corrispondenza con la prima sessione del Sinodo universale e l’inizio per noi dell’anno sapienziale, è esploso il conflitto in Israele e Gaza, abbiamo nuovamente vissuto il sapore amaro dell’odio e della distruzione.
Queste crisi planetarie si sono intrecciate con i nostri percorsi sinodali, come delle ferite che continuano a sanguinare, e vi si sono incise: lo documentano le sintesi diocesane che le nostre Chiese locali hanno consegnato alla fine di ciascuno dei tre anni del percorso. Ma tante altre crisi si sono mescolate con quella sanitaria geopolitica, segnando profondamente il Cammino sinodale: la crescita del disagio psichico in particolare fra minorenni; l’aumento delle catastrofi naturali; l’accentuata criminalizzazione del fenomeno migratorio; la silenziosa conversione dell’economia in economia di guerra; femminicidi e omicidi familiari ripetuti; sistema carcerario gravemente inadeguato; accentuazione diseguaglianze; crollo partecipazione al voto… l’ingresso di queste ed altre crisi nei lavori sinodali e nelle sintesi finali di ogni anno è la conferma che le nostre comunità cristiane non stanno sorvolando la storia, come mongolfiere che evitano gli ostacoli e le asperità del terreno, ma la stanno attraversando a piedi, facendo compagnia all’umanità del nostro tempo e cercando così di imitare Gesù, che annunciava il regno camminando sui polverosi sentieri umani. Le nostre Chiese, con tutte le loro fragilità (anch’esse onestamente segnalate nelle sintesi diocesane e nazionali), sono permeabili all’umano: ne respirano gioie e speranze, tristezze e angosce (cf. GS 1). Se non fosse così, dovremmo chiedersi se siamo ancora testimoni di Gesù morto e risorto.
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Le crisi che i discepoli di Gesù vivono nella storia non spengono tuttavia la speranza: essi sentono di essere anzi “pellegrini di speranza”, come ci ricorda il Giubileo che sta per iniziare. “Pellegrini”, perché non si installano al traguardo, aspettando comodamente che gli altri li raggiungano, ma affiancano i fratelli e le sorelle, errando, faticando con loro, condividendone ansie e risorse. I discepoli di Gesù sanno di essere “vasi di creta”, che però hanno un “tesoro” (cf. 2 Cor 4,7), appunto la speranza: una speranza pasquale, una speranza che “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rom 5,5). Coloro che hanno partecipato in qualsiasi forma al Cammino sinodale non hanno mai perso questa speranza pasquale, anche quando si sono trovati di fronte ad ostacoli e resistenze. Sia il biennio narrativo, con un’attività intensa di ascolto nelle decine di migliaia di gruppi sinodali impegnati nella “conversazione spirituale”, e nelle centinaia di cantieri organizzati come laboratori pastorali, sia l’anno sapienziale, affidato soprattutto agli Organismi di partecipazione, hanno consegnato alla fase profetica, quella che stiamo percorrendo, alcune priorità, dalle quali si deducono proposte creative, prassi feconde e disponibilità preziose. La domanda di fondo in questi anni è sempre quella di partenza, e non dobbiamo perderla per strada: “come possiamo essere Chiesa sinodale in missione?”, cioè testimoni del Risorto oggi. Le piste individuate, dentro all’orizzonte missionario, si sono incanalate nell’esigenza di una riforma che richiede una triplice conversione (cf. EG 27): 1) La “conversione comunitaria”, attraverso un’attenzione specifica ad un “fare cultura” che non resti chiuso nelle accademie, ma che raccolga le innumerevoli esperienze evangeliche vissute nelle nostre comunità e le sappia fondare, esprimere con linguaggi comprensibili e attuali e mostrarne la bellezza (secondo il principio: “la realtà è più importante dell’idea”: cf. EG 231-233). 2) La “conversione personale”, nella cura della formazione cristiana a tutti i livelli: l’evangelizzazione, l’iniziazione cristiana (il tema più frequentato), la catechesi degli adulti, le varie forme di annuncio (anche nelle case e negli ambienti di vita), la lectio divina, l’accompagnamento spirituale e gli itinerari teologici strutturati. 3) La “conversione strutturale”, che passa attraverso la corresponsabilità ecclesiale: con il rilancio dei ministeri laicali e degli organismi di partecipazione, la riforma delle Curie, la valorizzazione dell’apporto delle donne anche nei ruoli di guida e la gestione delle strutture materiali, amministrative e pastorali, talvolta pesanti e sovra-dimensionate. Come si vede, non si tratta di mettere a fuoco l’intero ventaglio dei temi pastorali, ribadendo magari in modo compilativo l’importanza di tutti gli ambiti e i settori della vita pastorale: si tratta piuttosto di toccare – come ha fatto il Sinodo universale nel documento finale della seconda sessione, subito approvato dal Papa – i nodi che permettono di sbloccare alcune dinamiche ecclesiali, o ecclesiastiche o persino clericali, refrattarie alla sinodalità. Nel Comitato del Cammino sinodale le abbiamo chiamate “condizioni di possibilità” per comunità più evangeliche e missionarie. Per ribadire semplicemente l’importanza di tutti e di tutto non occorreva un Sinodo, che invece si dimostra provvidenziale per snellire alcuni meccanismi divenuti eccessivamente pesanti rispetto alle esigenze della testimonianza del Risorto.
Ciascuno di questi grandi obiettivi comporta delle proposte, sulle quali occorrerà assumere orientamenti pratici condivisi, sia nelle due Assemblee sinodali nazionali, sia nelle Chiese locali; orientamenti ai quali l’Assemblea della Cei del maggio prossimo dovrà dare forma definitiva.
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Domani ai tavoli sinodali ciascuno offrirà il proprio contributo, in relazione all’argomento scelto. Ora vorrei dare semplicemente qualche spunto sull’orizzonte di fondo, che riguarda la missione e, più specificamente, la dimensione culturale della testimonianza cristiana. Il Cammino sinodale si è snodato nella consapevolezza del “cambiamento d’epoca” che viviamo, segnalato ripetutamente da Papa Francesco fin dal grande discorso al Convegno di Firenze del 10 novembre 2015. Chiesa e società, anche in Italia, non sono più gemelle, né spesso parte della stessa famiglia; non esiste più un “sistema di valori” condiviso; la tradizione cristiana non rappresenta più una piattaforma comune nella vita della gente, e la pratica della fede è abbondantemente disertata dai battezzati, mentre crescono le persone che in Italia si professano non credenti o appartengono ad altre religioni.
La reazione poteva essere di sconforto, di ricerca dei colpevoli o di nostalgia del passato: e in effetti qualcuno vive questi sentimenti e li esprime in forme tradizionaliste, forse più rumorose che numerose. Invece la grande maggioranza di coloro che hanno preso parte all’esperienza sinodale, sia universale che italiana, hanno espresso una reazione ben diversa, sostanzialmente consonante con le prospettive della Evangelii Gaudium: e non era dato per scontato. Una reazione non disfattista ma costruttiva, non rassegnata ma fiduciosa, non stizzita e accusatoria, ma aperta e accogliente. Si moltiplicano nelle sintesi diocesane, e negli altri apporti di singoli e gruppi, gli inviti a scrutare “i segni dei tempi”, a ricercare i “semi del Regno” o “le tracce del Vangelo”, a rilevare i “frutti dello Spirito”. Non dunque la pretesa di raccogliere estesi consensi attraverso il recupero di valori condivisi, ma il desiderio di esaminare tutto e tenete ciò che è buono (cf. 1 Tess 5,21), facendosi provocare da una realtà nella quale Dio, comunque, opera. Siamo certi infatti che lo Spirito sceso a Pentecoste non si dona a macchia di leopardo, ma illumina il cosmo e la storia, senza lasciare orfano nessuno. Se è vero è che i valori condivisi si sono sgretolati, è anche vero che dentro ogni uomo continua a pulsare la domanda di senso: “Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso” (EG 72). La questione è saper ascoltare le lotte dei nostri contemporanei dialogando con il “senso profondo dell’esistenza” che esprimono, e il loro “profondo senso religioso”.
L’ampia gamma delle esperienze registrate in questo triennio mostra la praticabilità di questo metodo missionario, definito fin dal secondo anno del Cammino “missione nello stile della prossimità”; un metodo che è quello conciliare. Il Concilio Vaticano II infatti ha riletto la natura della Chiesa all’interno della prospettiva missionaria: essa esiste non per se stessa, ma “come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (cf. LG 1). Essa non è frutto della libera iniziativa dei suoi aderenti, ma della risposta alla chiamata del Padre, del Figlio e dello Spirito (cf. LG 2-4; AG 2-4), ed è inviata a tutto il mondo per come “sacramento di salvezza” (cf. LG 48), per donare il tesoro più prezioso, la comunione con il Signore Gesù. In quest’opera missionaria, nella quale la Chiesa dà al mondo e da esso riceve (cf. GS 43-44), essa è mossa dal desiderio di offrire un apporto di umanizzazione e progresso. Le esperienze registrate in questi anni, dicevo, si muovono all’interno di questo metodo missionario. Già prima del Vaticano II la “teologia della missione” non era più solo “teologia delle missioni”: era sorta cioè, almeno in alcuni precursori come il p. Henri de Lubac, la coscienza che la missione appartiene alla natura stessa della Chiesa e non ne costituisce semplicemente un’attività temporanea. La motivazione data dalla “salvezza delle anime”, intesa nella sua sola prospettiva ultraterrena, non era più sufficiente per l’annuncio del Vangelo, perché diventava evidente la possibilità di raggiungerla anche al di fuori della Chiesa visibile; si faceva strada invece quella ragione che poi Papa Giovanni Paolo II chiamerà “salvezza integrale” (cf. Enc. Redemptoris Missio 11), comprendente anche la liberazione che già a partire dalla vita terrena la fede in Cristo può portare. Allora la missione, così intesa, riguarda dunque non solo le genti – “missio ad gentes” – con un inevitabile iato tra battezzati e non battezzati, ma riguarda tutti e diventa non una delle attività della Chiesa, ma la sua stessa ragion d’essere, connotandone lo stile e l’opera. In quest’ottica il Vaticano II ha potuto parlare di una Chiesa “per sua natura missionaria” (cf. AG 2) e di una Chiesa nella quale diversità di ministeri ma unità di missione (cf. AA 2). E la qualifica di “discepoli missionari” data da Papa Francesco a tutti i battezzati (cf. EG 24 e 173) è la ripresa di questa dottrina conciliare. Non attori della missione da una parte e destinatari dall’altra, come si tendeva a dire prima, ma tutti attori e tutti destinatari, perché tutti portatori di annuncio e tutti bisognosi di conversione.
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Comunità di discepoli missionari: è una meta, certo, ma è anche una bella realtà. Ciascuno di noi conosce “santi della porta accanto” che senza clamore, e magari nel chiuso di un appartamento urbano o nell’isolamento di una casa di campagna o di montagna, portano avanti nel quotidiano la loro testimonianza umana e cristiana; ce ne sono tanti, forse più di quelli che si immaginano; e non sono rilevanti nelle statistiche religiose. La sociologia, pur preziosa anche pastoralmente, trae conclusioni dalle statistiche e dalle previsioni riguardanti ciò che è registrabile: battezzati e non, credenti e non, praticanti e non, e così via. Per la scienza statistica, una visita all’ammalato o un dialogo anche occasionale con un adolescente o l’accoglienza di un povero, non rilevanza, a differenza delle percentuali dei praticanti o di chi si sposa in Chiesa o del numero dei seminaristi. Eppure la comunità cristiana si nutre di gesti quotidiani e spesso nascosti, che hanno a che vedere più con le relazioni che con l’organizzazione, più con l’ascolto e l’accoglienza che con gli eventi di massa. Una comunità cristiana – è emerso chiaramente nelle sintesi di questi anni – è tanto più fedele alla logica del regno inaugurato da Gesù, quanto più è capace, come lui, di incontri non programmati, ascolto delle sofferenze e dei sogni, affiancamento a chi cerca un senso alla vita. Si aprirebbero riflessioni, del resto già in atto, sulla necessità di concepire “la pastorale” non solo in senso istituzionale (proposte organizzate di annuncio, liturgia, carità), ma anche in senso informale, lasciando spazi e tempi alla creatività, alla cura delle relazioni, alla narrazione dei vissuti. Credo che la ricchezza di esperienze riflessa nelle sintesi delle nostre Chiese locali debba essere messa a disposizione di tutti: e non sarà uno di frutti minori del Cammino sinodale.
Tra l’esperienza vissuta e proposta praticabile tuttavia c’è spesso un salto. Come è scritto nei Lineamenti, “la fase profetica nel nostro Cammino sinodale non va intesa come abbandono della cultura”. Se cultura e profezia, nella mentalità diffusa, vengono poste in alternativa, si corre il rischio di relegare la cultura nelle accademie e la profezia nelle piazze: per i cristiani invece la profezia è la scelta di testimoniare integralmente il Vangelo e la viva Tradizione, abbracciandone tutti gli aspetti. La profezia in altre parole è la capacità di declinare quello che del cristianesimo “fa la differenza” nella cultura in cui esso è chiamato a vivere, non in un contesto ideale astorico e atemporale” (n. 19). La missione diventa cultura quando un’esperienza si presenta ragionevole e praticabile anche per gli altri. Qui sta la forza della profezia. Se un’azione, anche forte e coraggiosa, appare irragionevole o insensata, non genera nulla, tranne forse un apprezzamento compassionevole verso chi l’ha compiuta. La dimensione culturale è essenziale perché un’esperienza buona possa diffondersi e arricchire il mondo. La profezia non è semplicemente la testimonianza di qualche eroe solitario – pure apprezzabile e necessaria – ma è una qualità di tutta la Chiesa, “popolo profetico” (cf. LG 12), e di tutte le persone di buona volontà al di fuori di essa. Questa qualità “comune” – non solo singoli profeti, ma un popolo profetico – è la nota con la quale vorremmo percorrere il terzo passo del nostro Cammino, dopo la fase narrativa e quella sapienziale.
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Dire “fase profetica”, infatti, significa per noi riattivare quella Pentecoste che fu un fatto di popolo, non di singoli. “Tutti” sentivano i primi predicatori parlare la propria lingua. E Pietro, spiegando l’incredibile accaduto, si disse convinto che era l’adempimento della profezia di Gioele, “negli ultimi giorni – dice Dio – su tutti effonderò il mio Spirito; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno” (At 2,17-28; cf. Gioe 3,1-2). Per questo abbiamo scelto, nel Cammino sinodale, di evitare una restrizione progressiva delle competenze, come se al primo biennio aperto a tutti – in quanto la narrazione è alla portata di ciascuno – dovesse seguire un anno sapienziale riservato ad una cerchia di esperti (teologi ed esperti) e infine un anno profetico ristretto a chi doveva prendere le decisioni ultime. Abbiamo invece optato per lasciare sempre aperta a tutto il Popolo di Dio, nell’ampiezza delle sue componenti, la possibilità di intervenire ed esercitare il “senso di fede” proprio dell’intera famiglia dei battezzati (cf. LG 12). Anche questa terza fase, dunque, vede la partecipazione di tutti: sia attraverso di noi, membri o delegati o invitati alle due Assemblee, sia attraverso le forme partecipative che ogni Chiesa locale è invitata ad attivare attraverso lo Strumento di lavoro che uscirà da questa Assemblea. La profezia sinodale non è appannaggio di singoli, ma caratteristica dell’intero Popolo di Dio.
La nostra missione profetica, dunque, è incisa in questo noto versetto della prima Lettera di Pietro: “(siate) sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3,15). Prima occorre piantare la speranza “in noi”, testimoniandola con la vita; poi – se richiesti (“pronti a rispondere”) – saperne formulare le ragioni. Il fatto è che troppo spesso i due aspetti, cioè la speranza vissuta nell’esperienza e la capacità di motivarla con la ragione, rimangono distanti: la prima sparpagliata nel quotidiano delle nostre comunità e la seconda concentrata negli ambienti accademici. Occorre gettare dei ponti tra le case e le aule, tra le strade e le biblioteche. In questi tre anni si sono moltiplicati i convegni, le giornate di studio e le pubblicazioni sui temi sinodali. Una messe abbondantissima e preziosa, che è un altro dei frutti di questo percorso: ormai, anche grazie a quest’opera ormai imponente, abbiamo la possibilità di sviscerare tutte le sfumature della sinodalità. Colgo l’occasione per ringraziare quanti, anche tra voi, si sono spesi con le loro competenze bibliche, teologiche, pastorali e canonistiche per fare luce sulla sinodalità e sulle sue prospettive. Si è confermato che in Italia la comunità degli studiosi nei campi delle scienze religiose hanno le antenne e le risorse per leggere in profondità il “senso di fede” del Popolo di Dio e saperne discernere le traiettorie. E a questo proposito, desidero anche rilevare come in questi tre anni – ulteriore regalo del percorso sinodale – anche i Vescovi, insieme alle loro Chiese locali, hanno camminato insieme, dedicando gli orientamenti diocesani, quasi sempre sotto forma di lettere pastorali, al tema e all’icona proposta per quell’anno: dalla casa di Betania alla scena di Emmaus e, ora, alla Pentecoste.
Tornando alla cultura, e andando verso la conclusione, mi pare che per elaborare proposte culturali che esprimano la missione profetica del Popolo di Dio occorra – cito ancora i Lineamenti – “immergere nel Vangelo e nella Tradizione le esperienze belle e buone, che sono possibili e umanizzanti” (n. 20). La cultura infatti, si legge nello stesso documento, “è la vita delle persone e delle comunità letta nei suoi valori e significati” (n. 17). Non dunque che i singoli assumano e imitino buoni esempi – per quanto sia un’azione auspicabile – ma occorrono “esperienze pensate”, che siano replicabili nelle comunità e aiutino a crescere in umanità. E che, a loro volta, producano “idee riformulate”, in grado di ispirare altre esperienze, in quel circolo virtuoso tra prassi e teoria che è capace di far crescere la società. Una spia della scarsità di questi ponti tra esperienza vissuta e pensiero riflesso è la divisione tra i cattolici, schierati spesso politicamente su fronti contrapposti, dove il rispetto per la vita fragile divide però coloro che si impegnano per la vita nascente contro quelli che si impegnano per l’accoglienza dei migranti e viceversa, coloro che sostengono la famiglia e coloro che si occupano del creato e viceversa.
Questa divisione, che non è semplice ed augurabile dibattito ma diventa contrapposizione – denota un senso di appartenenza partitica più forte del senso di appartenenza ecclesiale e pone proprio la questione della missione profetica nella sua dimensione culturale: evidentemente quella “ecologia umana” di cui trattava Papa Benedetto XVI o quella “ecologia integrale” elaborata da Papa Francesco sono ancora lontane dal comune sentire cattolico. Non si faranno però dei grandi passi in avanti, senza impastare la teoria sulle prassi. Esistono numerosissime esperienze di accoglienza della vita nascente e dei migranti, di iniziative per la cura del creato e per la famiglia e l’educazione, l’inclusione: occorre metterle in rete, mostrarne l’ispirazione evangelica, agganciarle alla viva Tradizione ecclesiale: un’opera che coinvolge le nostre comunità cristiane e civili come i teologi e gli studiosi, gli operatori della comunicazione come i pastori, i laici e le persone consacrate. Gli orientamenti che andremo via via precisando in questo anno possono senza dubbio suggerire modi e strumenti per realizzare e diffondere “esperienze pensate”, come contributo alla crescita del regno in mezzo a noi (cf. Lc 17,21). Papa Francesco, nel discorso alla Settimana sociale di Trieste, a superare una visione privatistica della fede e intervenire nel dibattito pubblico: con umiltà, sapendo di essere minoranza, ma senza farci vincere dalla tentazione dell’insignificanza. Ha detto: “non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce” (7 luglio 2024). Minoranze sì, ma – direbbe Papa Benedetto XVI – “minoranze creative”.
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Ora, ribadendo la gratitudine verso tutti, già espressa da chi mi ha preceduto, concludo guardando insieme a voi ai lavori che ci attendono. I Lineamenti e le Schede operative sono testi ricchissimi, che verranno discussi, arricchiti, corretti, integrati. Ci muoviamo nel solco del Sinodo dei vescovi da poco concluso, facilitati dalla approvazione del documento finale già espressa da Papa Francesco. Non dobbiamo dunque attendere un’Esortazione apostolica, ma possiamo far leva sulle convergenze raggiunte nel Sinodo – trasferite nelle nostre Schede – e di lì proseguire per quanto ci riguarda. Questa nostra Assemblea è già una prima esperienza di ricezione del Sinodo universale. Ora tocca a noi, nei prossimi mesi, adattare e tradurre gli orientamenti sinodali nella nostra situazione, nelle Chiese locali e in alcune scelte della Chiesa italiana. Non perdiamo di vista che lo scopo non è tanto di produrre altra carta – per quanto sarà necessario anche questo – ma proseguire nell’esperienza di uno stile, quello sinodale, che già sta diventando prassi nelle nostre Chiese e che ora domanda di potersi consolidare e disporre di strumenti perché diventi anche fatto strutturale. In quest’opera, affidandoci allo Spirito del Padre, sperimenteremo una volta di più che “di lui”, di Cristo risorto, siamo testimoni: e che questa testimonianza, se fedele a lui e al suo Vangelo, umanizza noi stessi e il mondo. Ci mettiamo in cammino con Maria, che dall’annuncio di Gabriele alla Pentecoste è stata ed è l’icona della Chiesa, pellegrina di speranza.